SUONO DI MIELE
John William Waterhouse, "A Mermaid" (1900) |
«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
e ferma la nave, perché di noi due possa udire
la voce.
Nessuno è mai passato di qui con la nera nave
senza ascoltare con la nostra bocca il suono di
miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose»
(Omero, “Odissea”)
Erano giorni, ormai, che James e Jonathan
erano su quel canotto.
Idioti, ecco quello che erano.
Patetici, luridi, maledetti idioti.
Si erano fatti abbindolare come due
ragazzini in calore, questa era la verità. E ora avrebbero pagato a caro prezzo
la loro stupidità.
Con la vita.
Un prezzo molto alto, per aver dato
fiducia a due puttane.
Sì, questo erano, impossibile definirle in
altro modo.
Karen e Kristen erano gemelle, così simili
nel nome quanto nelle fattezze. Bionde, bellissime, la pelle nivea, le curve
nei punti giusti.
Avevano talmente insistito per quella gita
in barca…
La barca di James e di Jonathan.
Uno yacht, per la precisione.
Avrebbero dovuto saperlo che miravano solo
a quello. In fondo, le conoscevano appena. Ma erano talmente belle e sensuali
che non avevano saputo dire di no.
Le avevano conosciute una sera in un pub,
vicino al porto. Si erano avvicinate, con una scusa qualunque, si erano sedute
al loro tavolo e avevano lasciato che i due fratelli offrissero loro da bere.
La serata era trascorsa così, tra qualche
chiacchiera e un drink, insieme alla promessa di rivedersi. Ma quando Jonathan
si era lasciato sfuggire che possedevano uno yacht, era stata Kristen a
prendere l’iniziativa.
Una gita in mare, solo loro quattro, per
qualche giorno.
Avevano accettato, come due perfetti
idioti, intrigati e ammaliati da quei corpi sinuosi stretti in due abiti
succinti, che non lasciavano spazio all’immaginazione.
James e Jonathan avevano preparato tutto
nei minimi dettagli, tremendamente eccitati da quell’escursione fuori
programma. Sarebbero stati giorni indimenticabili.
Nessuno di loro era alla ricerca di una
storia seria, nemmeno le ragazze, lo sapevano. Erano giovani, avevano solo
voglia di divertirsi.
E l’avrebbero fatto.
Accidenti, se l’avrebbero fatto.
E così erano partiti, pochi giorni prima,
avventurandosi al largo. Erano stati giorni meravigliosi, di ozio e piacere,
trascorsi a mangiare, prendere il sole, fare il bagno e l’amore.
James era stato scelto da Karen, mentre
Jonathan si era preso Kristen. Si somigliavano così tanto, in realtà, che per
James non avrebbe fatto alcuna differenza scegliere una piuttosto che l’altra.
Non era deluso, comunque. La piccola Karen si era rivelata un bocconcino
davvero niente male. Con lei aveva trascorso ore di pura passione.
Se l’era goduta, finchè aveva potuto.
Che cosa era andato storto, esattamente?
Più James ci pensava, meno ci capiva.
Avevano bevuto molto, questo sì. Forse le
due bastarde avevano messo qualcosa nei loro bicchieri? Probabile. Ricordava a
malapena quello che era successo. All’improvviso lui e Jonathan si erano
ritrovati su quel canotto striminzito, sotto la luce e il calore impietoso del
sole, oscillando sulle onde dell’oceano, abbandonati a loro stessi e alla
Provvidenza.
Non ricordava come fossero andate le cose.
Non ricordava come diavolo ci fossero
finiti, lui e suo fratello, su quel canotto.
Ma, senza alcun dubbio, erano stati
drogati.
Quando era tornato in sé, molte ore più
tardi, risvegliandosi con un fortissimo mal di testa insieme ad una gran voglia
di vomitare, si era reso conto che lui e suo fratello erano soli.
Soli, in mezzo all’oceano.
Il loro yacht, insieme alle due ragazze,
era sparito.
Jonathan dormiva ancora. Ci aveva
impiegato un po’ per svegliarlo. Anche lui era intontito e gli girava la testa.
“Che cazzo è successo?”
“Ci hanno fregato lo yacht quelle puttane,
ecco cos’è successo.” – aveva risposto James con un ringhio.
“Stai scherzando.”
James aveva indicato l’oceano sconfinato
davanti a loro. “Tu vedi qualche barca qui in giro?”
Solo in quel momento Jonathan aveva
compreso la sconvolgente verità.
“Non ci posso credere. Volevano fregarci,
fin dall’inizio.”
“Già.”
“E adesso che cazzo facciamo? Non ci sono
neanche i remi.”
“Hanno pensato a tutto quelle due bastarde.”
Era stato allora che Jonathan era scoppiato
in un pianto a dirotto.
James non aveva fatto nulla per calmarlo,
perché, in realtà, aveva anche lui una gran voglia di piangere.
Ma non l’aveva fatto, nossignore. Aveva
affrontato quel momento con il massimo stoicismo, forse nella speranza che, prima
o poi, sarebbe passata una barca che li avrebbe tratti in salvo.
Sì, le cose sarebbero sicuramente andate
così.
Allora, aveva cercato di rassicurare il
fratello, dicendogli che tutto sarebbe andato bene e si sarebbero salvati.
Sì, anche se i loro corpi erano esposti ad
un sole inclemente, anche se non avevano acqua da bere né cibo.
In effetti, tutto cospirava contro di
loro. Ma James era sempre stato un ottimista per natura, non era tipo da
lasciarsi abbattere tanto facilmente.
La prima notte era stata, forse, la più
terribile. Il mare aveva preso ad agitarsi e James e Jonathan avevano una sete
tremenda, oltre che un fortissimo mal di stomaco.
Jonathan fu il primo a dare di stomaco,
sporgendosi oltre il bordo, seguito subito dopo dal fratello.
Dopo, le cose andarono un po’ meglio, ma
la sete non si era ancora spenta e le onde alte li costringevano a sorreggersi
come meglio potevano per non cadere in mare.
Quando giunse il mattino, il mare si era
placato un po’.
La sete, invece, no.
Avevano anche fame, ma la sete era
indubbiamente la cosa peggiore.
Verso la sera del secondo giorno, Jonathan
ebbe un’idea folle.
“Sai, potremmo berla.” – propose a James,
indicando l’acqua dell’oceano.
“Vuoi scherzare? Impazziresti nel giro di
pochi giorni.”
“Forse, ma mi passerebbe la sete.”
“Col cazzo. È salata, imbecille.”
I rapporti cominciavano ad essere tesi. La
stanchezza, la nausea, la fame e la sete stavano annullando, gradualmente ma
inesorabilmente, il sereno rapporto fraterno.
James non ce la faceva più e cominciò ad
ignorare il fratello. Ognuno se ne stava rannicchiato in un angolo del piccolo
canotto, in silenzio. Solo Jonathan, di tanto in tanto, si lamentava a bassa
voce, con parole che James nemmeno capiva.
All’alba del quarto giorno, erano stremati,
ed entrambi cominciarono a pregare la Morte di venirli a prendere.
Con immenso sgomento da parte di James, in
quattro giorni non una sola imbarcazione era passata da quelle parti. Non aveva
la minima idea di dove fossero. Attorno a loro, solo un’infinita distesa
d’acqua, la vastità dell’oceano, che molto presto li avrebbe inghiottiti per
sempre, a meno che non fosse accaduto un miracolo.
Il suo ottimismo era solo un ricordo
lontano, un ricordo annullato dalla sofferenza fisica, qualcosa che non aveva
mai provato.
A denti stretti, James maledì Karen e
Kristen, augurando loro una vita dannata. Lui e suo fratello sarebbero morti,
ormai ne era certo, ma giurò a se stesso di tornare sulla terra sotto forma di
spirito per tormentare fino alla pazzia quelle due sciagurate.
Stava già delirando, ne era consapevole.
Quanto avrebbero potuto resistere ancora
lui e Jonathan in quelle misere condizioni?
Sarebbero morti di sete, era fuor di
dubbio. Potevano sopportare la fame, ma non la mancanza d’acqua e aveva il
timore che presto suo fratello avrebbe ceduto alla tentazione bevendo quelle
acque insidiose ma terribilmente attraenti per una bocca arida e assetata.
Il giorno dopo, erano allo stremo.
Erano in uno stato talmente pietoso che
James pensò di avere le allucinazioni.
Sì, doveva essere per forza così.
“Cosa sono quelle?” – chiese Jonathan.
Sì, le aveva viste anche lui.
Dunque, non era pazzo.
O forse sì?
Forse erano impazziti entrambi, anche
senza bere l’acqua del mare?
Possibile?
James si sollevò un po’, per quanto lo
permettessero le scarse forze rimaste nel suo esile corpo, un tempo forte e
vigoroso, ora ridotto all’ombra di se stesso.
Si schermò gli occhi con la mano, convinto
che si trattasse davvero di un’allucinazione.
Eppure, le vide molto chiaramente.
Due donne, in acqua, lì davanti a loro,
poco distanti.
Due bellissime donne, con i capelli
lunghissimi, la pelle diafana, il seno scoperto.
Due dee, due angeli.
Una visione incantevole, dopo giorni amari
e privi di speranza.
“James, le vedi anche tu?”
“Sì, fratello, le vedo.”
“Sono bellissime.”
Jonathan era ipnotizzato da quelle
presenze splendide e del tutto inaspettate. Ma si ritrasse spaventato quando le
due fanciulle nuotarono verso la piccola imbarcazione e giunsero al loro cospetto.
Da vicino, erano ancora più belle. Le
labbra erano rosse come ciliegie, aperte in due sorrisi candidi e luminosi.
Li guardavano, senza parlare.
“Chi siete?” – chiese loro Jonathan.
Non risposero, ma continuarono a
sorridere.
Lui, allora, si sporse oltre il bordo,
allungando un braccio.
James, terrorizzato, trovò la forza di
avventarsi sul fratello per tirarlo indietro.
“Ma che fai? Lasciami! Lasciami ti ho
detto!”
“Jonathan, potrebbe essere pericoloso.
Non… non sappiamo cosa sono…”
Un barlume di lucidità aveva risvegliato
la coscienza assopita di James che, dei due, era sempre stato il fratello più
ragionevole. Jonathan, invece, era sempre stato una testa calda, un impulsivo.
“Che mi importa? Sono bellissime!
Guardale! Sono venute per salvarci!”
“Che stai dicendo? Per l’amor del cielo,
ritorna in te! Non lo vedi che sono creature del mare? Come possono salvarci?”
In quel preciso istante, le due fanciulle si
avvicinarono ancora di più e posarono le braccia sulla superficie bollente dei
bordi dell’imbarcazione. Sorridevano ancora, ma nessuna delle due parlò.
James teneva stretto il fratello, nel
timore che potesse fare qualche gesto sconsiderato.
“Che cosa volete?” – chiese, cercando di
rimanere lucido.
Nessuna risposta.
In quel momento, James cominciò ad avere
paura.
Chi erano?
Perché erano lì?
Cosa volevano?
Prima che potesse fermarlo, Jonathan si
divincolò in fretta dalla sua presa e si sporse verso una delle due.
“Jonathan, no!”
Ma era troppo tardi.
Tutto avvenne in fretta, troppo in fretta.
Una delle due si sporse un po’ di più e
James, inorridito, vide la lunga coda a forma di pesce emergere per un istante
dall’acqua.
Solo allora capì.
Sirene.
Creature marine accattivanti quanto
mostruose.
Pensò ad Ulisse, legato all’albero della
nave, e alle orecchie dei compagni turate dalla cera. Pensò alle sue grida,
nell’udire l’ammaliante canto delle sirene, alle preghiere rivolte ai compagni
di essere slegato dall’albero. Preghiere rimaste inascoltate, grazie
all’espediente suggerito da Circe.
Fu questa la sua salvezza.
Possibile che fosse tutto reale?
La leggenda era, dunque, verità?
O forse la miseria delle loro stanche
membra li aveva davvero condotti alla pazzia?
Erano reali o soltanto frutto della sua
immaginazione?
No, non era immaginazione.
Ma James se ne accorse troppo tardi.
Le sirene cominciarono a cantare. Un canto
dolcissimo, ammaliante, seducente.
Un canto che, in pochi secondi, intorpidì
i loro sensi, ormai irrimediabilmente perduti.
James, come suo fratello, fu
inevitabilmente attratto da quelle voci celestiali.
Jonathan si avvicinò a una di loro,
chinandosi su di lei per ricevere un bacio.
Ma la sirena allargò le vermiglie labbra
in un ringhio spaventoso, prima di afferrare suo fratello e trascinarlo con sé
sott’acqua.
James a malapena se ne accorse. Tutti i
suoi sensi erano obnubilati dal canto dell’altra fanciulla, così bella, così
affascinante… un canto talmente sublime…
La ragazza allungò le braccia e lui obbedì
a quel richiamo ancestrale.
L’ultima cosa che James pensò, prima di
essere trascinato sul fondo dell’oceano, fu che, finalmente, avrebbe potuto
spegnere la sua sete.
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