RABBIA
LUCAS E TOBIA
“E’ una catastrofe. Una sciagura.” - disse Lucas.
“Quali sono i sintomi?” - domandò Tobia.
“Ho sentito delle voci… parlano di rabbia…”
“Rabbia?!”
“Già.”
“Che significa?”
Lucas sbuffò lentamente. “Ho sentito i miei parlarne sottovoce in soggiorno, ieri sera. Allucinazioni, perlopiù, ma anche dolori muscolari, febbre, idrofobia…”
Era una tiepida sera di aprile e il cielo era ammantato di stelle. Dopo l’improvvisa bufera di neve che si era abbattuta sul paese alla fine di marzo, la primavera sembrava essere esplosa di colpo, regalando cieli tersi e temperature gradevoli.
Lucas aveva abbassato leggermente il finestrino, per far entrare un po’ d’aria fresca nell’abitacolo della piccola utilitaria color antracite che apparteneva al padre di Tobia. Il suo amico aveva superato brillantemente l’esame per la patente tre mesi prima. Lui, invece, non si era ancora iscritto alla scuola guida. Troppi pensieri per la testa… e adesso ancora di più, dopo i terribili avvenimenti che avevano scosso il paese nelle ultime settimane.
“Idrofobia?!” - esclamò Tobia, spaventato. Lucas notò, al chiarore della luna, le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. Indossava un maglione di lana grigio, sopra un paio di jeans, decisamente eccessivo per una serata così calda.
“E’ un sintomo della rabbia.” - spiegò. “Non riescono più a bere e devono idratarli con le flebo.”
“E’ spaventoso…”
“Ma la cosa peggiore è che pare non esista cura.”
Tobia spalancò gli occhi. “Ma… allora… questo significa che…”
“Temo di sì.”
Il canto di un grillo spezzò il silenzio immobile della sera. Lucas abbassò ancora di più il finestrino, con la manovella alla sua destra. L’auto era vecchia e malandata, ma il motore era a posto e per uscire la sera andava benissimo. Forse, un giorno, anche lui avrebbe preso la patente e, chissà, se avesse trovato un lavoro decente dopo il diploma avrebbe potuto comprarsi una macchina.
Sempre se non fosse stato colpito anche lui dalla rabbia, naturalmente.
“Sono i cani a trasmetterla.” - disse Tobia dopo un po’, guardando le lucciole danzare attorno al pino a fianco del quale aveva parcheggiato la macchina.
“Lo so, ma tutti i cani del paese sono stati controllati e… indovina un po’?”
“Nessuno di loro ha la rabbia.” - concluse Tobia, depresso.
“Esatto. Chissà, forse è un cane che viene da fuori, magari un randagio. Il problema è che le persone aggredite stanno troppo male per poter raccontare quello che è successo. Non riescono più a parlare e le loro condizioni peggiorano di giorno in giorno.”
Tobia rabbrividì, nonostante sudasse moltissimo sotto il pesante maglione. “Stanno per morire.”
“Sì.”
Tobia fissò il prato davanti a sé, debolmente illuminato dalla luna. “Forse dovremmo andarcene da qui.” - disse, con un’improvvisa nota di panico nella voce.
“Non dirmi che hai paura.”
“Tu no?”
“No.”
“Voglio andare a casa.” - ribadì Tobia, muovendo la mano destra verso le chiavi inserite nel blocchetto di accensione, subito bloccato da un gesto imperioso dell’amico.
Si voltò, meravigliato dal lampo di malizia che scorse nei suoi occhi di brace.
“Veramente io avevo qualcos’altro in mente...” - sussurrò Lucas, roco.
Il respiro di Tobia accelerò, mentre Lucas gli abbassava la zip e si piegava sul suo grembo.
Quando la sua bocca gli sfiorò la pelle bollente, Tobia si abbandonò contro lo schienale e chiuse gli occhi.
***
Le aggressioni in paese non si arrestavano. La bestia colpiva sempre di notte e, ultimamente, sembrava avere una particolare predilezione per le coppiette appartate in auto, lontano dal centro abitato. Le persone aggredite venivano ritrovate il mattino dopo, in stato di semi incoscienza, spesso con la bocca schiumante e preda di allucinazioni. Lucas venne a sapere di un ragazzo che era stato visto vagare per un campo di grano, completamente nudo, alle prime ore del mattino. Poco lontano, nella sua auto, era stata trovata la sua ragazza, semi svestita e svenuta.
Tutte le vittime recavano i segni del morso, che lasciava un livido blu sulla pelle e segni profondi di denti aguzzi conficcati nella carne. La paura, ormai, era tale che era sempre più esiguo il numero di persone che si azzardava ad uscire la sera.
Una donna di mezza età che aveva fatto il turno serale nel bar dove lavorava, alla periferia del paese, era stata ritrovata nel locale il mattino dopo, in preda a forti convulsioni. Sul polso destro recava i segni del morso, il sangue rappreso sotto la ferita. Era stata portata in ospedale dove, poche ore dopo, aveva iniziato a manifestare i segnali di una forte idrofobia.
La sete di sangue del misterioso animale, dunque, non si fermava e il sindaco si vide costretto ad emanare un’ordinanza con la quale istituiva il coprifuoco alle 21.
“Come faremo a vederci?” - chiese un preoccupato Tobia a Lucas, al telefono.
“Ci sono sempre i bagni della scuola.” - replicò lui, sarcastico.
“Piantala. Non è divertente.”
Frequentavano l’ultimo anno di scuola superiore e uscivano insieme solo da qualche mese. Anche se provava una forte attrazione per Lucas da diverso tempo, per Tobia lasciarsi andare era stato tutt’altro che semplice. La paura l’aveva sempre frenato: paura dei suoi sentimenti, di essere scoperto e bullizzato per la sua “diversità”. Alla fine, però, l’amore e la passione avevano preso il sopravvento e lui aveva ceduto.
Avevano sempre usato la massima discrezione per evitare di essere scoperti, soprattutto a scuola. Gli unici momenti in cui potevano stare insieme era la sera. A Tobia piaceva portarlo in giro con la sua auto, andare a mangiare una pizza, o bere una birra al bar, e poi fare l’amore in macchina. Adesso, però, non avrebbero più potuto farlo.
“Dai! Un modo lo troveremo!” - esclamò Lucas, con leggerezza. “E’ una cosa temporanea, non durerà per sempre!”
“Già, ma chissà fino a quando…” - mormorò Tobia, tetro.
***
“Me ne sbatto del coprifuoco stasera. Voglio vederti.” - disse Tobia, a bassa voce.
Erano in classe, durante l’ora di matematica e il professore dava loro le spalle, intento a scrivere alla lavagna.
Lucas impallidì. La situazione, in paese, non era affatto tranquilla. Sapeva che molti tra quelli che avevano ignorato il coprifuoco erano stati aggrediti ed erano finiti in ospedale, dove alcune delle vittime avevano già perso la vita.
Avrebbero rischiato grosso, lo sapeva, ma aveva una dannata voglia di stare con lui. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che erano usciti insieme...
“Non possiamo…” - mormorò, debolmente.
“Solo un’ora! Non un minuto di più!” - lo implorò Tobia.
Il professore aveva finito di scrivere formule alla lavagna e si era girato per spiegare la lezione ai ragazzi.
Lucas non capì una sola parola. Era eccitato. Voltò leggermente la testa. Tobia lo fissava con aria supplichevole.
Al diavolo, pensò.
“Fatti trovare davanti casa mia alle otto.”
Tobia sorrise.
***
Non andarono in nessun locale. Si appartarono nel solito posto, dove amoreggiarono quasi con disperazione, incuranti di tutto il resto, persi semplicemente nel loro folle ed impossibile amore.
Persero la cognizione del tempo e l’ora stabilita passò in un baleno, senza che nessuno dei due se ne rendesse conto.
Fu Tobia ad accorgersi che qualcosa non andava, perché nell’abitacolo, fino a un attimo prima fiocamente illuminato dalla pallida luna, calò di colpo il buio più assoluto. Sollevò la testa e ciò che vide gli mozzò il respiro. Una figura gigantesca e mostruosa stava ritta dinanzi al cofano della macchina, alta e imponente.
“Porca troia!” - gridò.
Lucas alzò la testa e quando vide il mastodontico essere davanti a lui spalancò gli occhi. “Quello che cazzo è?”
La bestia emise un ruggito da far accapponare la pelle, ma in quel medesimo istante una sirena suonò poco lontano e il latrato di un cane riecheggiò nell’aria. La bestia tacque, il muso allungato rivolto a sinistra. Incerto, tornò a guardarli, come combattuto sul da farsi, ma il suono della sirena dovette farlo desistere dai suoi propositi perché si accucciò a quattro zampe e scappò via.
“Cazzo!” - esclamò Tobia, abbandonandosi contro lo schienale. Aveva i pantaloni abbassati e, nonostante non facesse per niente freddo, tremava.
“Che diavolo era?” - mormorò Lucas, ancora scosso e immobile al suo fianco.
“Probabilmente la causa dell’epidemia di rabbia che ha sconvolto il paese.” - rispose Tobia.
Si voltò e negli occhi dell’amico lesse ciò che anche lui provava: puro terrore.
***
“Non capisco per quale motivo non vuoi andare alla polizia.” - ricominciò Tobia, ostinato. “E’ il loro mestiere. Spetta a loro catturarlo.”
Stavano tornando da scuola a piedi, in una limpida giornata di sole, gli zaini carichi di libri sulle spalle. Da quella notte, non avevano parlato d’altro, e nessuno dei due era più riuscito a dormire.
“Te l’ho già spiegato un milione di volte! Non crederebbero a una parola! Insomma, l’hai visto, no? Chi mai penserebbe all’esistenza di un mostro simile?”
“Perchè mai dovremmo inventarcelo?”
“Senti, se hai paura, lo farò da solo. Basta che tu lo dica.”
Tobia si fermò e lo fissò, preoccupato. “Sei davvero intenzionato ad andare fino in fondo?”
“Non c’è un altro modo, lo capisci? Noi conosciamo la verità. Noi dobbiamo farlo. Ma se non vuoi…”
“Non ti lascerò fare questa cosa da solo.”
Lucas assottigliò lo sguardo. “Sei sicuro? Non sei obbligato. In fondo, è una mia scelta.”
Tobia si avvicinò, gli occhi febbricitanti. “Io ti amo, lo vuoi capire? Verrò con te.”
Avevano deciso di cercarlo di notte, perlustrando ogni angolo del paese. Lucas era riuscito a procurarsi una pistola con dei proiettili speciali. Sapeva che, con quella, non avrebbe fallito. Non era un tiratore esperto, ma si era allenato per diverso tempo al poligono, insieme a suo padre, e sapeva di potercela fare. Sperava solo, al momento opportuno, di non farsi prendere dal panico. Anche il minimo e più banale errore poteva rivelarsi fatale.
Ci sarebbe stato tutto il tempo, poi, per raccontare tutto alla polizia e anche per capire l’origine di quella creatura. Niente del genere era mai stato visto nel paese tranquillo dove aveva vissuto fin da bambino. Lucas provava un misto di emozioni differenti: paura, terrore, ma anche una folle eccitazione che non provava da moltissimo tempo. Era come una sfida con se stesso. Catturarlo sarebbe stata una vittoria personale, oltre che la salvezza di tutta la cittadinanza. Non ricordava quando era stata l’ultima volta che si era sentito così… ed era una sensazione che gli piaceva.
Tobia aveva deciso di non abbandonarlo, ma lui temeva che potesse lasciarsi sopraffare dalla paura. Non voleva che gli accadesse qualcosa di male. Quando gli aveva detto di amarlo, aveva detto la verità. Non era solo il suo migliore amico, ma anche la persona a cui teneva di più al mondo. L’unica che voleva accanto.
ADAM
Mi sono sempre considerato una brava persona, uno che non ha mai fatto del male ad anima viva. La vita, nonostante questo, è stata dura con me. Padre alcolizzato, madre che ha sempre pensato solo a se stessa. Me ne sono andato di casa a 16 anni e di loro non ho più saputo nulla. Mi sono costruito la mia vita da solo, lavorando sodo, lavorando duro.
Ho fatto così tanti lavori che ho perso il conto. Poi, è arrivata la stabilità di un lavoro fisso e ben pagato. Guardia forestale. Non avrei potuto desiderare di meglio, io che ho sempre amato la natura e molto poco il contatto umano. Passare tutto quel tempo nei boschi mi piaceva, mi faceva stare bene. E intanto, anche la vita sentimentale iniziava a funzionare. Dopo una marea di storie storte, era arrivata Maria, il mio angelo. Una cascata di capelli ricci, due occhi come zaffiri, aveva conquistato il mio cuore fin da subito. Sapevo che era lei quella giusta, quella con cui costruire una famiglia.
Ed era nei nostri progetti, prima di quel maledetto giorno, prima che il destino si accanisse, di nuovo, su di me. Non gli era bastato farmi vivere un’infanzia d’inferno, con due genitori mai stati degni di questo nome. Non erano bastate la botte ricevute da mio padre, ripetutamente, quando tornava a casa ubriaco la sera. Non erano bastati i lividi che ero costretto a coprire con le maniche lunghe, a scuola.
Adesso so che era questo il mio destino, non di vivere felice con Maria e avere dei figli da lei.
Mi manca da impazzire… Mi domando che cosa abbia fatto, dopo la mia scomparsa. Sarà impazzita di dolore, o se ne sarà fatta una ragione? Forse ha già trovato un altro uomo da amare…
Che importa? Io non sarò mai più ciò che ero. Non potrò sposarla, come promesso. Non sarò mai il padre dei suoi figli. Maria ne voleva tre. Diceva sempre che tre era il numero perfetto.
Tre, come il giorno in cui la mia vita è cambiata per sempre.
Era il 3 marzo, undici giorni prima del mio quarantunesimo compleanno.
E’ stato quel giorno che tutto è cambiato.
Stavamo dando la caccia ai bracconieri, nel bosco. Fottutissimi bracconieri del cazzo. Se non fosse stato per loro, adesso sarei a casa, insieme a Maria, magari a fare l’amore.
Mi aggiravo con il fucile sulla spalla, preda di un’insolita inquietudine, come se presagissi il pericolo. Udii un rumore alle mie spalle, dei passi striscianti sulle foglie bagnate. Il terreno era scivoloso, perché aveva piovuto per tre giorni, ininterrottamente. Quel giorno il cielo era coperto, ma non pioveva. L’aria era umida e io parecchio infreddolito, forse anche per via del fatto che avevo saltato il pranzo. Ero un fascio di nervi, senza sapere perché. Oggi so che, inspiegabilmente, il mio cuore avvertiva ciò che stava per accadere. So che sembra folle, ma non lo è. Una parte di me sapeva che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno.
Udii di nuovo quel fruscio. Pensai ad un cacciatore di frodo. Erano in tanti che, in quei giorni, si aggiravano per il bosco alla ricerca di selvaggina fresca, del tutto incuranti del fatto che l’area fosse protetta e che ci fosse il divieto di caccia. Per me non erano altro che bastardi a cui sparare nelle palle, ma se ne avessi catturato uno avrei compiuto solo il mio dovere, assicurandolo alle autorità.
Avanzai tra gli alberi. Ero sicuro che il bastardo fosse lì, da qualche parte, impegnato nel patetico tentativo di nascondersi. Non me lo sarei lasciato sfuggire. Avevo i nervi tesi, i muscoli irrigiditi, i sensi all’erta, pronto a scattare.
Forse fu questo l’errore fatale. Ero talmente concentrato su chi avevo davanti, che non mi curai di ciò che avvenne alle mie spalle. Mi colse di sorpresa, saltandomi addosso e schiacciandomi a terra con tutto il suo peso. Udii il suo sommesso latrato, il suo odore ripugnante. Riuscii, non so come, a rotolare sul fianco, ma lui non mollò la presa e si avventò su di me, le grosse zampe che mi schiacciavano il petto.
Giacevo a terra, supino, il fiato mozzo, raggelato dal terrore. Ad un primo esame, sarebbe potuto sembrare un lupo, ma era infinitamente più grande e spaventoso. C’era, in lui, qualcosa di diverso, oserei dire di umano, che non riuscivo a decifrare. Il muso era nero e allungato, le umide narici frementi, i canini sporgenti come quelli di un vampiro. Era imponente, ma il corpo era snello, agile e scattante, e ne aveva dato prova con l’abilità con la quale mi aveva steso a terra, impedendomi la fuga. Il pelo era ispido, corto e marrone. Emanava un odore insopportabile che ricordava quello del letame, che ero costretto a respirare, mio malgrado. Era così vicino che riuscivo a vedere il riflesso dorato nei suoi occhi scuri, tremendi ed impenetrabili.
Seppi che tutto era finito nell’istante in cui affondò i denti acuminati nella mia carne, tra il lobo sinistro e la clavicola. Urlai, ma il mio grido si tramutò subito in un rantolo. Mi lasciò andare e fuggì, lasciandomi lì, agonizzante, con il sangue che sgorgava a fiotti. Mi sentivo in fiamme, scosso dai tremiti, la ferita che bruciava da impazzire. Anelai alla morte, pensando che sarebbe stata preferibile a quel dolore lancinante che mai avevo provato prima. Non so che genere di belva fosse quella, né quale orrendo sortilegio mi avesse fatto.
Ma la morte non venne a prendermi e presto il dolore iniziò ad affievolirsi, fino a scomparire del tutto. Mi sentivo, tuttavia, ancora debole ed instabile, e rimasi sdraiato per un tempo indefinito. Forse, mi appisolai. Tutto ciò che ricordo è che quando tutto finì, il vecchio Adam non esisteva più. Ero diventato un mostro, uguale a colui che mi aveva aggredito.
Ero diventato un lupo mannaro.
Non sarei più tornato alla mia vita di prima. Non avrei mai più rivisto Maria. Non sarei mai più stato una guardia forestale. Tutto ciò che c’era stato di umano in me era svanito per sempre.
Era qualcosa che sentivo, senza sapere come. E fu ciò che accadde. La mia trasformazione non aveva nulla a che vedere con quelle storie che si raccontavano, di uomini trasformati in licantropi nelle notti di luna piena. No. Il morso che per poco non mi era stato fatale mi aveva trasformato in pieno giorno, e per sempre. Non sarei mai più stato un essere umano.
Non feci più ritorno a casa e fui costretto a fuggire, rifugiandomi nella foresta per timore di essere catturato proprio dai bracconieri a cui, solo pochi giorni prima, avevo dato io stesso la caccia.
Vissi così, nella mia nuova condizione di belva feroce, nutrendomi prima di carcasse di animali e poi cacciandoli io stesso, prevalentemente di notte. Di giorno avevo troppa paura di essere scoperto e così mi rintanavo in qualche nascondiglio abbastanza grande da ospitarmi.
Passò del tempo prima che mi decidessi ad andarmene da lì e lo feci, credo, solo perché spinto dalla noia e dalla curiosità. Mi spostai, viaggiando di notte, percorrendo chilometri con il mio passo agile e scattante, senza mai stancarmi.
Giunsi in un paese a me sconosciuto, il che mi portò a pensare di aver percorso molta più strada di quanto pensassi. Fu lì che diedi il primo morso ad un essere umano, una notte in cui il mio riposo era stato disturbato dal rumore di un’auto. Il conducente parcheggiò poco lontano dal mio nascondiglio e spense i fari. Mosso dalla curiosità, mi avvicinai, con estrema cautela. Si trattava di una coppia di giovani innamorati che amoreggiavano sfacciatamente sotto i miei occhi, ignari della mia presenza. Qualcosa scattò dentro di me. Quella scena mi riportò alla memoria Maria e le ore d’amore trascorse con lei, ore di cui conservavo ancora un vivido ricordo. E fu come udire il mio cuore rompersi in tante crepe che, lo sapevo, mai più avrei ricomposto. Non avrei più rivisto la mia amata Maria, mai più l’avrei stretta tra le braccia, mai più avrei sussurrato teneramente il suo nome mentre la facevo mia.
Scattai, feroce e devastante, con tutta la furia di cui ero capace. Con un solo colpo feci a pezzi il parabrezza. Udii la ragazza urlare, e la presi per prima, affondando i denti nella caviglia. Il ragazzo, da buon codardo, tentò la fuga, ma lo raggiunsi svelto e colpii anche lui.
Fuggii, lasciandoli privi di sensi, convinto che, presto, il paese avrebbe fatto i conti con due nuovi lupi mannari.
Dopo quella sera, non riuscii più a fermarmi. La mia sete di sangue e di vendetta era troppo forte. Sapevo che le mie vittime non avevano nessuna colpa per quanto mi era accaduto, ma provocar loro dolore, in qualche modo, riusciva ad attutire la mia sofferenza.
Colpii, dunque, ancora e ancora, ma rimasi sbigottito quando venni a sapere che nessuno di loro era diventato licantropo. Per ragioni a me oscure, le mie vittime avevano semplicemente sviluppato i sintomi della rabbia, come se fossero stati morsi da un canide infetto qualunque.
Come era possibile? Per quale motivo io ero stato trasformato e loro no? Questo, se possibile, mi incattivì ulteriormente, raddoppiando la ferocia con la quale colpivo. Era l’unico modo per tentare di liberarmi dal dolore, per sfogare i miei istinti, per non pensare alla mia orrenda sventura.
Andò tutto a meraviglia, fino a quel giorno, la notte in cui fuggii come il primo dei vigliacchi davanti all’auto di due omosessuali che stavano facendo l’amore sotto i miei occhi. Ero sul punto di colpire, quando fui allertato dal suono di una sirena. Subito dopo, un cane, da qualche parte, iniziò a latrare. Tentennai, indeciso sul da farsi. Il bottino era troppo ghiotto per lasciarmelo sfuggire, ma quei rumori mi infastidivano e spaventavano allo stesso tempo. E se qualcuno mi avesse visto? Non potevo correre il rischio di essere catturato.
Vidi i loro volti atterriti e ringhiai, frustrato, prima di dileguarmi nella notte.
Per la prima volta, mi lasciavo alle spalle non due vittime, bensì due scomodi testimoni.
Mi avevano visto, conoscevano la mia natura.
Sapevo che li avrei rivisti. Sapevo che avrebbero cercato di annientarmi.
E sapevo di dovermi difendere, con ogni mezzo.
***
LUCAS E TOBIA
“Stiamo per chiudere. C’è il coprifuoco, non lo sapete?”
La ragazza dietro al bancone non doveva avere più di vent’anni. Era alta e snella, con lunghi capelli castani lisci e una frangetta troppo lunga che le copriva la fronte quasi fino agli occhi, grandi e neri. Indossava un grembiule nero con l’insegna del bar disegnata in azzurro sul petto.
“Solo un caffè. Poi ce ne andiamo.” - disse Lucas, seduto al tavolino.
La giovane lo fissò, nervosa.
“Ti prego. Non ci metteremo più di due minuti.” - insistette Lucas, in tono più dolce.
La ragazza parve pensarci su per qualche secondo, poi sospirò. “E va bene. Ma poi ve ne andate. Subito. Devo chiudere.”
Era da parecchio tempo che trascorrevano le serate in giro, alla ricerca del lupo. In genere, evitavano i locali, ma quella sera Lucas era particolarmente stanco e aveva un disperato bisogno di caffeina.
“Secondo me è sparito.” - disse Tobia, seduto davanti a lui. “Non ha più attaccato, da quando ci ha visti. Dev’essersi spaventato. Magari è fuggito via, lontano.”
“Non ne sarei così sicuro.” - osservò Lucas.
“I fatti sono incontrovertibili.”
“Magari si è solo fatto furbo.”
“Cioè?”
“Cioè sta solo facendo calmare un po’ le acque, prima di colpire ancora. E’ ancora qui, da qualche parte. Lo so.”
Tobia lo fissò intensamente, con un’ombra di preoccupazione sul volto.
La ragazza arrivò con due caffè fumanti e mentre serviva al tavolo a Tobia non sfuggì l’occhiata maliziosa e penetrante che gli aveva lanciato, alla quale reagì con assoluta indifferenza.
Lei, piccata, tornò dietro al bancone, l’espressione imbronciata.
Tobia trangugiò in fretta il suo caffè, ansioso di andarsene. Lucas, al contrario, lo centellinava in maniera esasperante.
“Faresti meglio a sbrigarti.” - gli disse Tobia, nervoso.
Non sapeva nemmeno lui perché, ma sentiva un gran bisogno di uscire da lì per respirare una boccata d’aria fresca.
“Calmati. Non c’è nessuna fretta.” - rispose Lucas, tranquillo.
Mentre mandava giù l’ultimo sorso, la vetrina alle loro spalle, a pochi metri di distanza, andò in frantumi.
***
ADAM
Era da parecchie sere che mi davano la caccia, ma io l’avevo previsto e avevo avuto cura di restare nascosto per un po’. Quella sera, però, ero stato io a pedinarli fino al bar di periferia dove si erano fermati per un caffè.
Ho seguito i loro movimenti per un po’, poi sono entrato in azione. Della ragazza non mi importava nulla. Mordere l’ennesimo umano era l’ultimo dei miei pensieri. Sapevo che quella era la sera della resa dei conti. Dovevo eliminarli, punto e basta. Poi, forse, avrei aggredito la ragazza, come premio finale.
Irruppi con violenza rompendo il vetro della vetrina. Balzarono in piedi, atterriti e io sogghignai. Li avevo colti di sorpresa, e questo era un punto a mio favore.
Almeno, così pensai, fino a quando non vidi spuntare l’arma. Ignorai le urla disperate della ragazza, che era corsa a rifugiarsi nel retro. A lei avrei pensato dopo. I miei occhi erano inchiodati sulla pistola che il ragazzo alto, quello con la faccia da furbo e l’aria arrogante, aveva tirato fuori non appena mi aveva visto. Non persi tempo e mi lanciai contro di lui, ma un attimo prima che potessi raggiungerlo sparò. Non me ne curai, sapevo che non sarebbe bastato per uccidermi. Quelli della mia natura possono essere sconfitti in un solo ed unico modo, ma spalancai gli occhi per il terrore quando sentii un dolore al petto che mi fece mancare le forze. Lo fissai, inorridito, e posai gli artigli sul cuore, nel quale si era aperto un grosso squarcio dal quale sgorgava il mio sangue color catrame.
Il ragazzo sorrideva. Non so come avesse fatto a procurarsi un proiettile d’argento, ma quella fu la mia condanna a morte. Ebbi appena il tempo di vederlo puntarmi di nuovo l’arma contro e sparare il secondo colpo, che centrò per la seconda volta il bersaglio.
Un piccolo sorriso mi increspò le labbra, mentre i miei occhi si chiudevano sul mondo e il dolcissimo volto della mia amata Maria mi veniva incontro, tendendomi la mano.
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