STRUMENTO DI MORTE




Corro a perdifiato lungo il marciapiede, ansioso di porre quanta più distanza possibile tra me e questo luogo malsano. Mi fermo solo un istante per premere forte la mano sul petto, nel timore di soffocare. Sento che il cuore potrebbe esplodere da un momento all’altro. Mi volto indietro di scatto. E’ un rumore quello che odo? Con un grido strozzato, riprendo a correre come un pazzo, gli occhi fuori dalle orbite, la paura che scorre nelle vene come fuoco vivo.

Corro e corro fino a quando non sono abbastanza lontano dal cimitero.

Allora, solo allora, mi fermo per riprendere fiato.

Quando il respiro ritorna regolare, mi soffermo a riflettere su quanto appena accaduto, maledicendomi per la mia avventatezza. Sono mesi che mi riprometto di abbandonare quella compagnia di diavoli scalmanati, ma ogni volta che mi coinvolgono in qualcuna delle loro follie non riesco mai a tirarmi indietro.

Stasera è stata una di quelle volte. La peggiore, oserei dire. Nessuno di noi si sarebbe mai aspettato di vedere quello che abbiamo visto, e so che da oggi in poi la mia vita non sarà più la stessa.

Sono corsi via, i balordi, lasciandomi solo in balìa del mostro. Ma sono riuscito a fuggire, appena in tempo.

Ma intanto… intanto avverto il gelo penetrare nelle ossa. Una pallida luna piena mi osserva, illuminando il cammino, che mi sforzo di riprendere, per fare ritorno a casa.

A casa, al sicuro.

L’idea era stata di Michael. “Andiamo al cimitero. Stanotte. Scavalchiamo il cancello e facciamo baldoria.”

Tutti l’avevano scrutato con gli occhi spalancati, brillanti di lucida follia, desiderio di trasgressione.

Tutti, tranne me, che avevo opposto resistenza.

Il pollo se la fa sotto dalla paura.” - mi ha canzonato il bastardo, subito seguito a ruota dagli altri.

Come sottrarsi al volere del branco? Sono stato troppo debole e meschino per farlo.

E così, li ho seguiti, pur consapevole che fosse una pessima idea.

E lo è stata, in effetti.

Ho scavalcato il cancello, rischiando di rompermi l’osso del collo, a causa della mia scarsa agilità. Cinque stupidi ragazzi, disposti a fare qualunque cosa, anche mettersi in guai seri, pur di dare un senso alle loro miserabili vite.

Sono stato l’ultimo a scavalcare, ma nessuno di loro mi ha aspettato. Così li ho rincorsi, per non restare indietro. L’atmosfera era spettrale. I sentieri di ghiaia argentata che costeggiavano le lapidi brillavano sinistri sotto la luce di una luna immobile, terrificante anch’essa. Li percorsi rumorosamente, incurante del gran baccano procurato dai miei forsennati passi.

Correvo, cercando di non guardare le tombe e quei volti silenziosi che mi pareva volessero parlarmi, ammonirmi di tornare indietro, giacchè ero ancora in tempo.

Ho raggiunto gli altri, fermi di fronte ad una lapide in pietra grezza, l’unica che non era adorna di alcun monumento in marmo, né piante, né fiori.

Il vecchio pazzo è sepolto qui.” - ha detto Nicola.

Ho letto il nome sulla lapide. Mathias Ronchi.

Sapevo chi era. Il matto del paese. Aveva trascorso gli ultimi anni di vita gironzolando per le vie del centro, gridando frasi sconnesse del tipo: “Tirano le bombe!”

Era un reduce di guerra, che non aveva mai fatto del male a nessuno ma che aveva perso la ragione durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Si diceva fosse morto vecchio e solo nel suo appartamento di periferia, dimenticato da tutti.

Una fine miserrima, per un uomo in catene.

Che siamo venuti a fare?” - ho domandato, fissando la lapide.

Paura, pollo?” - mi ha canzonato nuovamente Michael.

Piantala!” - l’ho redarguito, seccato.

Siamo rimasti tutti lì a fissare la tomba, immobili, aspettando chissà cosa, e io cominciavo a stufarmi. Non avrei mai dovuto seguirli, pensavo annoiato e preoccupato allo stesso tempo. Quel posto non mi piaceva, e mi chiedevo che accidenti mi fosse saltato in testa di assecondare quei matti.

Allora… proprio allora… è accaduto qualcosa. Ho avvertito un rumore, come un sibilo di un serpente e mi sono accorto che proveniva dalle viscere della terra. Tutti si erano zittiti e trattenevano il fiato.

Me incluso.

Che diavolo è?” - ho chiesto, allarmato.

Ssht! Zitto, idiota!” - ha sussurrato Michael.

All’improvviso, la terra davanti a noi ha iniziato a muoversi, come se una talpa stesse per affiorare in superficie.

Ma non era una talpa. Dalla nuda terra, umida, popolata dai vermi, una mano scarna e ossuta, putrefatta e maleodorante si è palesata ai nostri terrificati occhi. Le dita tendevano verso l’alto, in direzione dell’indifferente luna che si stagliava nel cielo limpido, ammantato di stelle, come in un muto e orripilante richiamo.

Qualcuno ha urlato. Qualcun altro se l’è data a gambe.

Io sono rimasto lì immobile, paralizzato dalla paura, gli occhi vitrei fissi sull’arto che si muoveva con agitazione, come se il corpo sottostante premesse per riemergere dalle profondità della terra. Ho impiegato un po’ per capire che ero rimasto solo. Tutti gli altri, Michael incluso, se n’erano andati, come un ammasso di codardi.

Impietrito, fissavo quella mano, impossibilitato a fuggire, come se due braccia invisibili avessero inchiodato le mie gambe al terreno, impedendo loro di muoversi.

Poco dopo, ho scorto il polso, immagine inquietante e sconvolgente, che mi ha dato la definitiva certezza che Mathias Ronchi stava cercando di risorgere dalla morte. La pelle attorno al polso era sottile, quasi trasparente sotto il chiaro di luna ed ero sicuro che se l’avessi toccata le ossa si sarebbero sgretolate come sabbia fine tra le dita.

Iddio mi perdoni! Non so quale follia si sia impossessata di me in quel momento, ma ho sentito l’improvviso ed urgente bisogno di avvicinarmi all’arto, invece che scappare a gambe levate come avevano fatto gli altri e come il buon senso suggeriva.

Ho osservato me stesso, come uno spettatore esterno, chinarmi verso il basso e piegarmi in avanti, deciso a sfiorare quelle ossa putrefatte.

Il cielo mi aiuti! Non so perché l’ho fatto, e a nulla vale, ora, il mio pentimento! Riesco ancora a sentire sulla pelle il gelo provocato da quel contatto. Un istante prima, quasi avvertendo la mia presenza, la mano si è girata nella mia direzione, immobile. Allora, con il petto in escandescenze, ho allungato la mano destra per toccarla.

Ed è stato allora che, con uno scatto felino, l’arto ossuto si è avvinghiato al mio, stringendo così forte da farmi male, facendomi gridare di dolore. Sentivo le ossa contro la mia carne, l’odore di terra e di morte, la brezza gelida della morte stretta tra le mie dita.

Non so quanto a lungo ho urlato, ma credo che nessuno mi abbia sentito. Il cimitero era vuoto, silente, fermo, isolato dal resto del mondo. Esistevo solo io e quella mano agghiacciante che, se non mi avesse mollato, mi avrebbe condotto con sé negli inferi.

In qualche modo, non so come, sono riuscito a divincolarmi dalla stretta mortale, mentre sentivo gocce di sudore gelato scendere lungo la schiena.

E sono corso via, senza mai voltarmi indietro. Sono arrivato al cancello e l’ho scavalcato come una furia.

E ho corso, ho corso a perdifiato per mettere quanta più distanza possibile tra me e l’incubo ad occhi aperti appena vissuto.

Ed eccomi qui, sopravvissuto all’agghiacciante sussurro della morte, miracolosamente in grado di raccontarlo.

La decisione è presto presa: al diavolo Michael e i suoi scagnozzi! Ne ho abbastanza dei loro sporchi giochetti!

Anche se, in un certo senso, è proprio grazie a loro se stanotte ho una nuova consapevolezza: i morti resuscitano. I morti respirano. I morti sono ancora tra noi.






***


I giorni seguenti mi barrico in casa ed esco solo per sbrigare le faccende più urgenti e per comprarmi da mangiare. Gli incubi, di notte, non mi danno tregua. Sogno la dannata mano che mi afferra il collo e stringe… stringe… fino a quando la vita non abbandona il mio corpo.

Ogni notte.

Di Michael e gli altri non ho più notizie. E va bene così. Non seguirò più il branco, dopo quanto accaduto nel cimitero.

Improvvisamente, la tranquilla vita del paese viene sconvolta da un avvenimento tragico e quanto mai inusuale. Roberto, un mio coetaneo iscritto al secondo anno di filosofia, viene trovato senza vita nella sua camera. I lividi sul collo sono inequivocabili: è stato strangolato. I genitori, che vivevano sotto il suo stesso tetto, apparentemente non si sono accorti di nulla e hanno scoperto il cadavere solo al mattino.

Il paese è in lutto. È la prima volta che la comunità viene travolta da una simile tragedia.

Conoscevo Roberto solo di vista. In paese lo descrivono come un bravo ragazzo, dedito allo studio, pochi amici, nessun grillo per la testa. Non è curioso che, ogni volta che muore qualcuno, la vittima viene immancabilmente dipinta come uno stinco di santo?

Mentre leggo il trafiletto sul giornale locale che decanta la vita perfetta di Roberto, mi squilla il cellulare.

Quando vedo il numero, il mio cuore accelera.


- Pronto?

- Hai saputo di Roberto?

- Sì.

- Chi pensi sia stato?

- E io come faccio a saperlo?

- Non ti viene in mente proprio nessuno?


Michael ansima, come se anche il suo cuore stesse andando a mille.


- Non penserai…

- E’ stato strangolato. Non ci vuole molto a fare due più due.

- E’ un’assurdità.

- Tu credi?


Michael riaggancia, senza aggiungere altro, senza nemmeno salutare.

E’ fuori di testa. Mathias Ronchi non può essere resuscitato dalla tomba per uccidere un ragazzo innocente. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo? E’ piuttosto improbabile che lui e Roberto si siano conosciuti, a meno che Mathias non si sia scontrato con qualcuno della sua famiglia, in passato. Ma tutti sanno che quell’uomo era solo una vittima di guerra e che, di fatto, non ha mai costituito un pericolo per nessuno.

No, Michael sta dando di matto dopo quello che ha visto al cimitero. Se sapesse quello che ho avuto il coraggio di fare… se sapesse che “il pollo” ha toccato quella mano viscida, sentendo sotto la pelle le ossa di un morto… forse cambierebbe opinione su di me e smetterebbe di darmi del codardo.

Ma mi rendo conto che della sua opinione non mi importa un accidenti. E mi ritrovo a sorridere della sua ingenuità. Sì, è vero, abbiamo visto quella mano. Ma è tutto. Nessuno mi convincerà mai che il morto si è riesumato dalla tomba da solo con lo scopo di uccidere.

Michael è un idiota.

Stop.

Fine della storia.



***


E’ passato un mese dalla morte di Roberto. Come tutti, qui in paese, ho partecipato al funerale e mi sono commosso quando sua madre ha tenuto un discorso sul figlio tragicamente perduto.

La vita, però, deve continuare e ben presto ciascuno di noi è tornato ad immergersi negli impegni quotidiani, dimenticandosi dei morti. È l’ordine naturale delle cose.

Cerco di tenermi alla larga dal cimitero. Sono, tuttora, convinto che le ipotesi di Michael siano solo frutto della sua galoppante fantasia, tuttavia continuo a nutrire un certo timore per quel luogo infestato di morte.

Non ho parlato ad anima viva di quello che ho visto, e sono sicuro che nemmeno gli altri lo hanno fatto. Saremmo presi per pazzi, oltre al fatto che non sarebbe saggio confessare di essere entrati nel cimitero di notte scavalcando le mura per introdurvisi furtivamente.

Quella notte resterà impressa per sempre nella mia memoria, e Mathias continuerà, come adesso, a popolare i miei sogni.

Michael non mi ha più cercato. Mi chiedo se lui e la sua banda stiano continuando a combinare guai, o se quanto accaduto al cimitero li abbia indotti a mettere definitivamente la testa a posto. Propenderei per la seconda ipotesi.

Un altro mese trascorre pigro prima che la comunità venga, di nuovo, colpita da un altro tragico evento. Stavolta la vittima è una dodicenne di nome Maria, che viveva in una casa diroccata su un’altura, nella parte alta del paese.

Scopro della tragedia una mattina al bar, mentre sono seduto a bere un cappuccino per riscaldarmi. Quando mi sono svegliato, la brina ricopriva l’intero campo incolto davanti alla mia stanza e il cielo era velato da pallide nubi.

Ascolto con curiosità il racconto di un anziano all’amico. Sono seduti al tavolo accanto al mio e bevono un caffè. L’uomo, che indossa un berretto di lana, ha il volto coperto di rughe e le sue labbra secche e sottili si muovono svelte mentre racconta della recente tragedia all’amico.

Scopro che la modalità è la stessa usata con Roberto. Maria è stata strangolata, probabilmente nel sonno e la nonna che viveva con lei ha dato l’allarme il mattino seguente, dopo aver trovato il corpo riverso nel letto, una linea violacea sul collo immacolato.

Rabbrividisco. Una tragedia, in un paese piccolo come questo, è un conto. Due, iniziano ad essere troppe. Ma la cosa davvero inquietante, come racconta l’anziano all’amico, leccandosi avidamente le labbra come se fosse lieto di avere qualcosa di gustoso di cui spettegolare, come una viscida comare, è il modus operandi utilizzato dall’assassino.

Mentre butto giù l’ultimo sorso di cappuccino, la mia mente ritorna al cimitero e alla mano assassina. Scuoto la testa, deciso. Mi rifiuto di accettare le assurde teorie di Michael.

Eppure, quando mi alzo per pagare, un brivido mi scorre lungo la schiena, un brivido che ha poco a che vedere con il freddo, poiché il bar è avvolto da un piacevole tepore. La vetrata è appannata e oltre di essa scorgo un pino dai rami imbiancati.

Esco dal locale e mi avvio verso l’edicola, per comprare il quotidiano locale. Voglio saperne di più su quanto accaduto alla casa diroccata.

Il giornale, tuttavia, non dice molto di più di quanto ho potuto apprendere dall’anziano pettegolo.

Maria è morta tragicamente e l’identità dell’assassino, come nel caso di Roberto, rimane avvolta nel mistero.

Due giorni dopo, passeggiando per le vie del centro, noto un paio di giornalisti che intervistano alcuni abitanti. Come avevo previsto, due omicidi nel giro di così poco tempo hanno fatto troppo scalpore per non suscitare la morbosa curiosità dei cronisti affamati di notizie.

Tiro fuori il cappuccio della felpa da sotto il piumino imbottito e lo tiro su, affrettandomi a cambiare strada. Per nessun motivo al mondo desidero diventare preda di quegli avvoltoi.

Purtroppo, Roberto e Maria non restano due casi isolati. Nel giro di poche settimane, il numero dei giornalisti che arrivano in paese raddoppia, a seguito di altri due omicidi commessi con il medesimo modus operandi.

La prima vittima è Andrea, un trentacinquenne padre di due bambini piccoli che viene trovato riverso sulla sedia girevole, dietro la scrivania del suo ufficio in città, a una decina di km da qui.

La seconda è Carolina, una casalinga di 50 anni il cui corpo senza vita è stato scoperto dal marito al suo ritorno a casa dal lavoro.

Sempre la stessa modalità, sempre quei lividi violacei sul collo. Non posso più fare finta di niente e il dubbio instillatomi nella testa da Michael, tempo addietro, prende sempre più piede nella mia mente. Come non ripensare continuamente a quella mano? Come non immaginarla stringersi attorno al collo delle povere vittime, fino a provocarne l’asfissia?

Sono divorato dall’ansia e dalla brama di conoscere la verità che si cela dietro i misteriosi omicidi.

Vengo assalito dall’impulso di chiamare Michael, ma desisto. A che pro? Probabilmente è terrorizzato quanto lo sono io e non me la sento di parlare ancora di quanto è successo al cimitero.

Il cimitero…

E se…

Un’idea folle si fa strada nella mia mente annebbiata dall’orrore. Tornare al cimitero, provare a parlare con lui…

Rabbrividisco al solo pensiero. Sono pazzo, lo so. Ma il bisogno si fa spasmodico. Tornare lì è l’unico modo per levarsi ogni dubbio.

Rimugino a lungo sulla mia idea, indeciso sul da farsi. Il solo pensiero di riavvicinarmi alla dimora dei morti mi toglie il sonno, mi leva il respiro, suscita in me sensazioni orribili.

Ma devo costringermi a farlo. Devo, o non potrò più vivere con questo tarlo che si nutre della mia mente, della mia stessa anima.




***


E’ notte fonda e le strade sono avvolte nel silenzio. Cammino svelto lungo il marciapiede luccicante. Nel pomeriggio scrosci di pioggia hanno allagato le strade e ora l’aria è fredda e umida. Piccoli sbuffi di vapore fuoriescono dalle mie labbra, mentre accelero il passo, come per convincermi a non desistere dal mio proposito e tornare indietro.

Non posso farlo. Devo andare fino in fondo. È necessario che io sappia.

Arrivo davanti al cancello, chiuso con la serratura, come sempre. Inizio ad arrampicarmi, con grande difficoltà, perdendo presto la sensibilità delle dita a causa del contatto col metallo ghiacciato. Digrigno i denti, mentre faccio forza con le gambe per scavalcare, prima di buttarmi dalla parte opposta con un salto. Impreco, perché il ginocchio destro si piega sotto il mio peso, ma non ci bado e mi rimetto in piedi immantinente.

Mi guardo intorno, avvolto nel buio. Solo i lumini delle tombe illuminano fiocamente il cammino. Avanzo, in direzione della lapide di Mathias. Sento le membra tremare, la fronte sudata sotto il cappellino di lana, malgrado il gelo che penetra nelle ossa. I passi scricchiolano sulla ghiaia bagnata. Il batticuore mi costringe a rallentare il passo e penso, con tragica ironia, che se fossi colpito da un infarto in questo stesso istante nessuno lo scoprirebbe fino all’indomani. Curiosamente, troverebbero il mio cadavere proprio nella casa della morte, pronto per la sepoltura.

Scaccio dalla mente questi pensieri e mi costringo a proseguire.

Ed eccomi arrivare dinanzi alla lapide, che si distingue da tutte le altre per la terra smossa e la mancanza di una qualsiasi fonte di luce. A sinistra, cosa che non avevo notato la prima volta, c’è la tomba di due gemellini, nati prematuri e morti una settimana dopo la nascita. Si chiamavano Alice e Sebastian e riesco appena a distinguerne le fattezze dei volti piccini, nel buio fitto che mi avvolge. A destra, non vi sono altre tombe. Trovo curioso e piuttosto macabro che il vecchio pazzo sia stato sepolto accanto a due bambini la cui vita si è spezzata ancora prima di poter essere vissuta. La sua, invece, lo è stata fino in fondo, fino alla pazzia. Gli strani scherzi del destino…

Mi avvicino, osservando la nuda terra. La visibilità è scarsa, non avverto rumori, né intravedo movimento alcuno ai miei piedi.

Emetto un piccolo sospiro. “Mathias.”

E’ la mia stessa voce a provocarmi un brivido. Sono spaventato a morte e in questo momento vorrei trovarmi ovunque, fuorchè qui. Eppure, è qui che devo essere. E’ questo il mio posto, stanotte. Il cielo è velato dalle nubi, della luna non v’è traccia alcuna. Come uno stupido, non ho pensato di portare con me una torcia. Ma non ha importanza. Sono sicuro che riconoscerei quella mano anche nell’oscurità più nera, più con gli occhi della mente che con questi.

Mathias.” - ripeto a voce più alta, terrorizzato che lui possa rispondere al mio richiamo e palesarsi alla mia vista. E’ qualcosa che bramo e temo allo stesso tempo.

Ma nessun rumore squarcia questo silenzio infernale, nessun movimento sospetto sotto il terreno.

Possibile che io mi sia sognato tutto? No. So che lui c’è, è qui sotto, e ascolta la mia voce.

Gli piace giocare, ma è un gioco al massacro per il sottoscritto.

So che ci sei. Coraggio, vieni fuori. Fatti vedere.”

Attendo, inquieto, ma è vana la mia attesa.

Sento lo scorrere dei minuti, li sento scivolarmi attraverso le dita intirizzite dal gelo. Tic tac, tic tac.

E’ un ticchettio sordo e sinistro quello che avanza, cadenzato, dentro la mia testa. Ogni secondo che passa è uno stillicidio senza fine. Perirò, sotto questo giogo infernale, penso con agghiacciante lucidità.

Sei stato tu, non è vero?” Decido di giocarmi la carta finale. “So che sei stato tu. Li hai uccisi tu, tutti quanti. Anche la bambina, Maria.”

Una nuova attesa, un nuovo tormento.

Mathias Ronchi, stanotte, sembra essere morto per davvero, ma io so cosa abbiamo visto quella notte. Non è stato un sogno. Non siamo pazzi.

Non mi resta altro da fare che tornare a casa, senza aver dipanato i miei dubbi.

Avanzo lentamente, rimuginando sugli eventi. Sono matematicamente sicuro che l’omicida sia lui, e mi rendo conto che è libero di colpire ancora. Poi, un pensiero improvviso mi assale. Se è lui l’assassino, è naturale che non si trovi più qui. Mi fa tremare il pensiero che sia uscito dalla tomba e che si possa nascondere ovunque, in questo momento.

E se…

E se venisse a cercarci, noi che abbiamo osato profanare il cimitero di notte? Se avesse deciso di vendicarsi? Potremmo essere noi le prossime vittime? Scuoto la testa, cercando di razionalizzare la faccenda. Se fosse stato mosso dalla sete di vendetta, perché non colpire noi? No, la cosa non ha alcun senso.

Eppure, la paura irrigidisce ogni muscolo, ogni fibra interna del mio corpo. Impiego più tempo del solito a scavalcare il cancello e quando atterro sul marciapiede ho il respiro mozzo. Cerco di riprendere fiato, prima di avviarmi verso casa tentando, invano, di scacciare i demoni dalla mia mente.

Una parte di me aveva sperato di rivederlo, di parlare con lui, perfino.

Ragazzo, se pensi di poter parlare con i morti, allora sei pazzo almeno quanto lui.

Dovrei ridere dei miei stessi pensieri deliranti, ma nemmeno questo mi riesce. Troppa la paura, troppo il terrore suscitato dal dubbio.

Ci sono dei morti. E c’è un assassino a piede libero di cui nessuno conosce l’identità.

Nessuno, tranne me e Michael.

E abbiamo le mani legate.



***


Faccio ritorno a casa, nel cuore della notte, e accendo il fuoco, sapendo che il sonno non arriverà. Troppa la tensione, per riuscire a dormire. Mentre attendo che la stanza si scaldi, vado in cucina e riempio il bollitore, poi accendo il gas e tiro fuori dalla credenza una tazza e una confezione di miele millefiori.

Torno in anticamera per togliermi le scarpe, poi vado in camera da letto dove mi spoglio e indosso pigiama e veste da camera. Quando il fuoco inizia a scoppiettare nell’angusto soggiorno, il bollitore comincia a fischiare. Due minuti dopo sono di ritorno davanti al fuoco, con la tazza di tè bollente tra le mani. Sposto la logora poltrona in pelle marrone davanti al camino e lascio che fuoco e tè mi scaldino le membra, mentre il pensiero ritorna a Mathias. Che ne è stato di lui? Dove si nasconde in questo momento? Forse, penso con ribrezzo, è là fuori, in qualche abitazione, pronto a colpire ancora. Se così è, immagino che lo scoprirò molto presto, dalle cronache locali. Ma come fermare un morto che uccide? Come? Forse dovrei chiamare Michael. In fondo è stato lui ad instillare il dubbio nella mia mente, ma anche lui, come me, è impotente. Che cosa potremmo fare per fermarlo? Assolutamente niente. Alla polizia ci prenderebbero per pazzi.

Forse, dopotutto, non c’è niente da fare, se non attendere.

Il prossimo omicidio.

La prossima vittima.

Con le mani legate.
In catene, senza poter confessare, senza poter intervenire.

Finisco in fretta il tè e mi alzo per andare in bagno. Accendo la luce e avanzo verso il lavandino sporco, pensando che l’indomani mi toccherà dare una ripulita. Accendo il pulsante sotto lo specchio rettangolare, che si illumina mettendo in luce le borse sotto gli occhi, la ruga tra le sopracciglia, la barba incolta e lo sguardo spento. Mi lavo le mani e le asciugo, poi spremo del dentifricio sullo spazzolino.

Proprio mentre rialzo la testa, spazzolando con vigore, un urlo agghiacciante mi muore in gola.

Eccolo! E’ lui! Alle mie spalle!

Mathias!

Ingoio il dentifricio, che per poco non mi va di traverso, ma riesco a lanciare un urlo che nessuno può sentire. Fisso atterrito il ghigno scheletrico dietro di me, visione orripilante che mi riempie di angoscia! Gli occhi sono due orbite vuote, brandelli di pelle rugosa minacciano di staccarsi dal volto consunto. Al di sotto, la visione del sangue mi raggela. Le labbra sono stirate in un ghigno grottesco che mi fa inorridire. Lo sento emettere un rantolo, mentre la sua mano… la stessa mano che ho visto risorgere dalla tomba, si avvolge come serpe velenosa attorno al mio collo, immobilizzandomi. La sua stretta è gelida, rigida, e tuttavia non abbastanza da essere letale. Non ancora, perlomeno. Trattengo il fiato, gli occhi spalancati, come la bocca, che non riesce ad emettere più alcun suono.

Uccidimi! Fallo ora, demonio insolente! Che tu sia maledetto!

Parole che riesco ad urlare solo nella mente. Lui gode della mia paura, lo sento, se ne ciba, la respira, ne sente l’odore. È musica per i suoi assatanati sensi.

Un nuovo rantolo, come il gracidio di un rospo. La mano ossuta preme sul collo, la mia testa quasi poggia contro il suo petto macilento. Sento l’odore della morte e vengo assalito da un forte attacco di nausea. La stretta si fa più forte, sento le dita come spilli contro la tenera carne. Sto per soccombere, lo so. In fondo, per questo è venuto. Per uccidere.

Coraggio! Fallo! Che stai aspettando?

L’assassino, però, pare avere un attimo di esitazione. Piega la testa di lato e il ghigno abbandona per un istante le labbra rinsecchite. Con mio sommo stupore, la stretta sul collo si allenta. Boccheggio, respirando avidamente.

Proprio mentre inizio a progettare la fuga, ecco comparire qualcosa che mi inchioda nuovamente sul posto e che nulla ha a che vedere con Mathias, che torna a sorridere con quel ghigno malefico e beffardo. Accanto a lui, accade qualcosa. Sgomento, rimango ad osservare.

Ed ecco Roberto, lo studente universitario, colpito a morte nella sua camera.

Orrore degli orrori! Assisto, impotente, alla scena maledetta, mentre il vecchio annuisce con vigore, beandosi della mia follia, nutrendosi della mia angoscia! Il colpevole, dopo aver colpito a morte il povero ragazzo, si rialza, ed ecco che viene, finalmente, svelata la sua identità!

Non è Mathias! Sono io! Io ho strangolato Roberto! E con mani identiche alle sue! Mani della morte! Dita lunghe, nodose, orrendamente ossute. Uguali alla mano riemersa dalla tomba!

Boccheggio, mi manca il respiro, mentre la sua mano torna a stringermi il collo, abbastanza forte da impedirmi di fuggire, ma non abbastanza da uccidermi.

Ed ecco la scena successiva. La piccola Maria, dormiente nella casa diroccata. E sono di nuovo io! Io, che premo sull’esile corpicino per toglierle la vita!

Oh, eterna dannazione per la mia anima contrita! Non vi può esser redenzione per una tale serie di misfatti, né in terra né in cielo!

Basta… ti prego… basta…” - lo imploro, in lacrime, senza potermi muovere a causa di quella stretta che vorrei diventasse presto mortale!

Ma lui scuote la testa e mi costringe a guardare la continuazione degli orrori da me commessi.

Ed è il turno di Andrea, ucciso nel suo ufficio, e poi di Carolina, nel tepore della sua casa.

Vittime innocenti delle mie mani assassine.

Lacrime brucianti rigano il mio viso, mentre ad occhi chiusi scuoto la testa, incapace di accettare, di comprendere.

Non può essere… tu menti…” - biascico, intontito, ma lui mi afferra per i capelli, costringendomi a guardarlo nelle orrende orbite vuote.

Ed ecco che la sua mano lascia il collo e afferra la mia. Rabbrividisco a quel contatto viscido, pur sapendo che con identiche mani ho commesso atroci delitti.

Lui, l’arciere. Io, la freccia foriera di morte.

Il suo strumento, né più né meno.

Deglutisco a vuoto. “E adesso che vuoi farne, di me?” - sussurro, roco.

E’ un attimo. La frazione di un secondo.

La mano di Mathias colpisce con forza il mio petto attraverso lo specchio, che va in mille pezzi, mentre il torace si squarcia e l’ultimo, terrificante grido che fuoriesce dai miei polmoni riempie il silenzio della notte.





 

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