IL POZZO MALEDETTO
“Scappa!” - gridò lo stronzo, ma prima che la ragazza potesse muoversi le assestai un pugno in faccia che la fece cadere a terra.
Assicuratomi, in questo modo, che non potesse fuggire, mi dedicai a lui, prendendolo a calci e pugni fino a quando non emise un ultimo rantolo e non si mosse più.
Allora, e solo allora, tornai da lei, accasciata a terra, nel vicolo maleodorante e buio nascosto da occhi indiscreti, o almeno così avevo creduto prima che lui arrivasse per soccorrerla. L’aveva sentita gridare ed era spuntato dal nulla, proprio mentre cercavo di abbassarle il pantalone attillato.
“LASCIALA STARE!” - aveva urlato, non appena si era reso conto delle mie intenzioni, ma io avevo i riflessi pronti e l’avevo sistemato a dovere.
Nessuno deve osare intromettersi nei miei loschi piani.
Nessuno.
La sentii gemere. Mi chinai e l’afferrai bruscamente per i capelli, obbligandola ad alzare la testa. Gli occhi erano velati dal terrore e sentii l’erezione spingere nei calzoni. Era inebriante vederle così, ogni volta. Bastava l’odore della loro paura a farmelo venire duro.
Prima che potesse urlare, le coprii la bocca con la mano.
Poi, finalmente, mi diedi da fare.
Era la mia quarta vittima quella settimana. La verità era che non ne avevo mai abbastanza. Provocare dolore mi piaceva, mi eccitava, dava un senso alla mia vita. E più lo facevo, più avevo bisogno di farlo, come una droga. In più, c’era il brivido del rischio. Sapere di poter essere scoperto in qualunque momento rendeva la caccia ancora più divertente.
Ma non erano ancora riusciti a prendermi. Ero troppo scaltro, troppo furbo, troppo attento a non lasciarmi dietro tracce.
Non avevo ucciso nessuno. Certo, qualcuno l’avevo ridotto in fin di vita, ma erano tutti sopravvissuti. Sapevo dosare la mia forza, sapevo come usare violenza senza eccedere. Le mie mani erano macchiate dei più tremendi crimini, ma non erano sporche di sangue.
Gli stupri erano l’attività che preferivo. Ho un debole per le donne e mi fa impazzire l’idea di prenderle con la forza, sentire la loro carne cedere sotto le mie spinte selvagge, tappar loro la bocca per soffocare le grida, vedere il terrore nei loro occhi mentre le faccio mie.
Purtroppo ho trovato solo troie. Nessuna che sia ancora vergine, al giorno d’oggi. Ma chissà, con un colpo di fortuna, forse…Mi fa impazzire l’idea di essere io a possederle per la prima volta. Do di testa quando ci penso. È il mio sogno proibito.
Ogni tanto mi dedico anche agli uomini, quando capita che qualcuno mi faccia incazzare sul serio. Non sono molto imponente, ma aver praticato arti marziali mi permette di stenderli con una certa facilità. Porto sempre un coltello con me che, naturalmente, uso solo all’occorrenza, insieme ad un passamontagna, ogni volta che premedito un’aggressione, in modo da non essere riconosciuto e poter agire indisturbato.
Ma la mia preferenza continua ad andare alle donne. Ne ho prese quattro questa settimana, e forse non ho ancora finito…
Sono nato nei bassifondi, in un quartiere malfamato di una cittadina di provincia. Sono cresciuto per strada, ma questo ha forgiato il mio carattere, rendendolo forte e inattaccabile dalle miserie della vita.
Non posso dire di avere ricordi felici della mia infanzia. Il mio vecchio era un ubriacone che si divertiva a picchiare me e mia madre. Porto ancora i lividi, non sulla pelle, ma nell’anima.
Non trovate curioso il fatto che io sia diventato come lui? Beh, a parte l’alcol, naturalmente. Non mi piace bere e voglio essere lucido quando guardo le mie vittime negli occhi. Voglio occuparmi di loro con tutta l’attenzione che meritano.
Dicono che chi cresce nella violenza diventa violento a sua volta. E’ inevitabile, dicono. Non so se le cose stiano esattamente così. So, però, che amo ciò che faccio e non voglio smettere.
No, mi diverto troppo…
Sono scappato di casa all’età di 16 anni. Non potevo più sopportare il mio vecchio e sapevo che, se fossi rimasto, avrei finito per ucciderlo. Ho abbandonato mia madre, lasciandola a marcire tra le grinfie di quel bastardo.
Era una donna buona e gentile, con una cascata di capelli ricci neri come il carbone, folti e lucenti. Sento ancora nelle narici il suo profumo. Indimenticabile, inconfondibile. Una persona di valore, il cui unico errore è stato quello di sposare un figlio di puttana.
Era bella e intelligente. Avrebbe potuto fare grandi cose nella vita, invece è finita a fare la cameriera per mantenere un marito dedito all’alcol. Amava i libri e da piccolo mi leggeva sempre una storia prima di dormire, ma ogni volta che mi addormentavo finivo sempre per svegliarmi quando lui rientrava dal bar e le ruggiva contro. Sentivo le urla di mamma sotto quei colpi durissimi e mi rannicchiavo sotto la coperta tappandomi le orecchie, inutilmente. Quella violenza mi entrava dentro, rendendomi suo schiavo.
Ho fatto un’infinità di lavori diversi, rompendomi puntualmente le palle dopo breve tempo. E così continuavo a cambiare, sempre alla ricerca di novità, sempre alla ricerca del lavoro perfetto che, naturalmente, non esisteva.
Odiavo lavorare. Una vita di schiavitù per pochi spiccioli che bastavano appena per campare. A volte non avanzavo nemmeno i soldi per le sigarette e questo mi faceva incazzare di brutto.
Sarei finito a fare la vita di mia madre, a spezzarmi la schiena per un misero tozzo di pane.
Non avevo amici, non ne avevo bisogno. Mi accorgevo di incutere timore alla gente e questo mi piaceva, mi faceva sentire un duro, uno tosto.
Vivevo dove capitava, in stanze in affitto con i muri scrostati e pieni di muffa e scarafaggi in bagno. Una vera merda. Pensavo alle parole che mia madre mi ripeteva quando ero piccolo: Potrai fare grandi cose, Cristian, sei in gamba e intelligente. Potrai arrivare dove vuoi, basta solo che tu ci creda.
Povera ingenua. Non era quello il mio destino. Non ero come lei. Piuttosto, sentivo di somigliare in tutto e per tutto a lui.
Ed era questa la mia maledizione.
La gente, come ho detto, mi stava alla larga, la mia espressione dura e i miei occhi perennemente inquieti erano un monito sufficiente affinché tenessero le distanze. Tutto ciò che facevo era lavorare e poi tornare nella mia fottuta stanza, senza parlare con nessuno, senza intrecciare amicizie, senza nemmeno scopare.
Forse, fu questa la svolta. Avevo bisogno di scopare. Ero stanco di consumarmi a forza di seghe. Agganciai la prima vittima in un bar, dove mi ero infilato subito dopo il lavoro per una birra. Era al tavolo da sola, cosa che trovai molto strana dal momento che non era niente male, e beveva come una spugna. Bionda, piccolina, il nasino spruzzato di lentiggini e due labbra carnose come non ne avevo mai viste, il corpo formoso strizzato in un abitino rosso fiamma.
Mi leccai le labbra. Bastò una sola occhiata per desiderarla. Adoravo il modo in cui mandava giù la birra, facendo schioccare le labbra dopo ogni sorso. Mi avvicinai e provai ad attaccare bottone, ma lei mi liquidò con un sonoro vaffanculo che mi fece incazzare. Non lo diedi a vedere, comunque, e mi limitai ad un sorrisetto di circostanza, allontanandomi, ma con la ferrea intenzione di vendicarmi.
Scolai in fretta una birra al bancone, continuando a tenerla d’occhio. Nessuno le si avvicinò.
Pagai la birra e uscii, aspettandola nell’ombra. Quando, mezz’ora dopo, la vidi uscire dal bar, la seguii e, infilato il passamontagna, l’aggredii, trascinandola nel buio. La scopai con foga, poi la pestai fino a farle perdere i sensi.
Quello fu solo l’inizio. Un inizio inebriante e seducente. Da allora, la violenza diventò il mio pane quotidiano, ma molto presto emersero i primi problemi. Non avevo più nessuna voglia di andare a lavorare. Volevo passare il tempo alla ricerca delle mie vittime, sceglierle con calma, seguire i loro movimenti, studiarle, prima di colpire. Organizzare la caccia stava diventando più elettrizzante della caccia stessa. Ma dovevo pur sbarcare il lunario. Dovevo pur pagare le ammuffite stanze dove dormivo. Dovevo pur mangiare.
La soluzione si presentò da sola, senza che io l’andassi a cercare. Buffo come il destino ci venga incontro, a volte, senza sforzo alcuno.
Conobbi Leila una sera, nello stesso pub dove avevo adocchiato la mia prima vittima. Ignara del pericolo che correva, si avvicinò al mio tavolo. Stavo buttando giù il mio secondo bicchiere di whisky e la mente iniziava già ad annebbiarsi. Tuttavia, non la mandai via e rimasi in ascolto dei suoi deliri. Mi raccontò molto di sé, tanto che ad un certo punto, preso da una sorta di folgorazione, scartai l’idea iniziale di aggiungerla all’elenco delle mie vittime. Leila mi disse di essere single, viveva sola in un appartamento in centro e lavorava nell’azienda di suo padre. Fu questo a renderla, improvvisamente, tanto accattivante ai miei occhi. Una donna ricca, che pendeva letteralmente dalle mie labbra. Quale miglior fortuna sarebbe potuta capitarmi?
Leila era talmente ingenua che accalappiarla fu un gioco da ragazzi. Ci scambiammo il numero di telefono e due giorni dopo la invitai ad uscire.
Si innamorò subito di me e iniziammo una storia. Ovviamente, non mi importava un cazzo di lei, ma solo dei suoi soldi. Avevo perso da poco il mio ultimo lavoro da cameriere e quel poco che ero riuscito a mettere da parte stava per finire. Leila era entrata nella mia vita al momento giusto.
Lasciai presto la mia stanza in affitto dalle pareti ammuffite per trasferirmi da lei. Smisi di lavorare e, anche se la cosa non le andava particolarmente a genio, riuscivo sempre a calmarla con un pompino e una scopata.
Presto, Leila iniziò a volere di più dal nostro rapporto. Insisteva per presentarmi suo padre, che avrebbe potuto trovare un posto per me in azienda. Inorridito solo all’idea, trovavo sempre una scusa per defilarmi. Conoscere il vecchio trombone era l’ultima cosa che volevo e tanto meno che diventasse il mio capo. Sarebbe stato come infilarmi un cappio al collo e, presto, sono sicuro che Leila se ne sarebbe uscita con una proposta di matrimonio.
Io avevo solo bisogno di qualcuno che pagasse le spese vive, mentre io me la spassavo massacrando uomini e fottendo donne. Avevo bisogno che Leila continuasse ad amarmi, che andasse a lavorare tutti i giorni e non mi rompesse i coglioni. Non chiedevo di meglio.
Tutto andò alla grande per un po’ e sarebbe, probabilmente, continuata così se il destino non avesse avuto altri piani per me.
Era una sera di primavera. Mi ero appena dato da fare con una stupida adolescente che mi aveva dato del filo da torcere e avevo resistito alla tentazione di infilarle un coltello su per la gola. La piccola sgualdrina aveva urlato e strepitato a lungo e mi era costato una certa fatica metterla a tacere, prima di abusare di lei. Dopo una lotta estenuante, colto da una rabbia cieca, avevo finito per sodomizzarla fino a farla sanguinare. Grazie al cielo aveva perso i sensi e io avevo potuto trascinare il corpo al sicuro, nei campi.
Sulla via del ritorno, incespicai più volte lungo il sentiero accidentato, maledicendo la ragazza e il buio fitto che mi impediva di vedere dove mettevo i piedi. Quella sera di marzo era fredda e umida e nubi grigie si rincorrevano nel cielo, giocando a nascondere la luna che, forse, in quel frangente, avrebbe potuto impedirmi di cadere in un pozzo nascosto alla mia vista.
Imprecai e urlai, mentre scivolavo sempre più giù, provocandomi ferite ed escoriazioni che bruciarono come l’inferno. Atterrai su un terreno duro e polveroso, pestando il culo. Bestemmiai.
Di quella notte da incubo ricordo solo che ebbi appena il tempo di pensare a come uscire da lì, prima che qualcuno si imbattesse nel corpo della ragazza, poco distante da me. Ma non ci fu tempo di fare altro, perché all’improvviso mi sentii risucchiato in un vortice invisibile e i miei piedi si staccarono da terra. Urlai ancora, ma stavolta non c’era pericolo che qualcuno udisse i miei strepiti, perché fui scaraventato oltre i confini del tempo e dello spazio e solo quando atterrai a destinazione capii quello che era successo.
Attonito, incredulo, sconvolto e sconcertato, mi ritrovai nuovamente bambino nell’accogliente tepore della mia stanza. Seduto sul letto, osservai le manine, i piedini infilati nelle pantofole, il pigiama con gli orsetti di una taglia più piccola. Scossi la testa, rifiutando di credere a quanto mi era appena accaduto. La caduta, non so perché, mi aveva fatto tornare indietro nel tempo. Com’era possibile? Che diavolo c’era in quel pozzo? Era assurdo. Queste cose accadevano nei film, non nella vita reale.
Eppure, ero lì, di nuovo bambino, costretto a rivivere giorni che ricordavo con dolore e che mai, per nessuna ragione al mondo, avrei accettato di rivivere. Il nastro della mia maledetta vita si era appena riavvolto, trascinandomi lì, nel luogo degli orrori, da cui ero scappato troppo tardi.
Perché proprio a me? Non avevo, dunque, sofferto abbastanza?
All’improvviso, udii un grido e tremai, proprio come avevo tremato nel passato, tornato orrendamente alla ribalta nel giro di una manciata di minuti. E, di colpo, ricordai ogni attimo, ogni istante, ogni singolo minuto di angoscia, di terrore, di sopraffazione.
Mi coprii il faccino con le mani, conscio di conoscere già il mio destino, ma incapace di riviverlo per la seconda volta. E tuttavia, quali scelte avevo? Nessuna. Non potevo fuggire, non ancora. Ero troppo piccolo. Dove sarei potuto andare? E da chi, se le sole persone che avevo al mondo erano mamma e papà? Ma era un’onta definire “padre” l’uomo che, in quel preciso istante, la stava torturando, prendendola per i capelli e schiaffeggiandola, facendola urlare in modo che tutto il vicinato la sentisse.
Sapevo cosa sarebbe successo. Quando avrebbe finito con lei, sarebbe venuto da me.
E non avevo scampo.
Accadde, e fu peggio della prima volta, perché sapevo cosa stava per succedere esattamente un attimo prima che accadesse. E credetemi, è qualcosa che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Perché, vedete, un conto è rivivere i ricordi belli, ma essere costretti a rivivere quelli brutti è qualcosa di devastante.
Affrontai tutto con quanto più coraggio possibile. L’unica nota positiva, in quel ritorno al passato, fu rivedere il sorriso di mia madre. L’abbracciai stretta e a lungo, la prima volta, stando attento a non premere troppo sui lividi che il bastardo le aveva lasciato. Non dimenticherò mai il modo in cui mi guardò: teneramente, come se quella fosse la prima volta che mi vedeva. Non sapeva che stava guardando, semplicemente, il Cristian adulto, sotto le mentite spoglie di un bambino.
Furono, nuovamente, anni di inferno ma, in qualche modo, passarono e mi ritrovai, finalmente, di nuovo sedicenne. Lo confesso, non ebbi cuore di andarmene prima. Forse perché, stupidamente, mi ero convinto di dover rifare tutto, esattamente, come la prima volta. Eppure, sapevo di non avere vincoli di alcun genere e di essere libero di cambiare il passato, se solo l’avessi voluto.
Allora perché rimasi? Forse, solo per mia madre, pur sapendo che fuggire a 16 anni, o a 15, non avrebbe cambiato le cose.
Fui nuovamente codardo e, molto egoisticamente, l’abbandonai. E, anche stavolta, non mi voltai indietro. Anche stavolta, non seppi più nulla di lei e conservai nel cuore il suo sorriso e il calore dei suoi abbracci.
Ripercorsi la medesima scia di violenza che aveva caratterizzato gli anni successivi all’adolescenza, senza rimorso alcuno, anzi forse più incattivito di prima. Cominciai a stuprare ed ebbi l’impressione di provare un ancor più perverso piacere nel farlo.
Fino all’incontro con Leila.
Eccomi, finalmente, quasi di ritorno al punto di partenza.
Di nuovo, si innamorò di me. Di nuovo, mi trasferii da lei. Di nuovo, iniziò la nostra vita insieme, fatta di cieca obbedienza, la sua, e di sesso, violenza e perversione, la mia.
Quando riconobbi la stupida adolescente a causa della quale ero caduto nell’infame tranello che mi aveva trascinato in un macabro viaggio nel tempo, fui tentato di lasciarla perdere, ma anche quella volta l’istinto carnale finì per prevalere sulla ragione.
Stavolta sapevo con chi avevo a che fare e mi affrettai a zittirla subito, seppur non abbastanza da farle perdere conoscenza. Volevo che fosse lucida mentre mi occupavo di lei e l’amplesso fu assolutamente sublime. Mi persi nel suo sguardo colmo di terrore, nelle lacrime che le colavano lungo le guance, nei muscoli irrigiditi, nella paura che emanava dai pori della sua pelle.
Quando, infine, l’abbandonai, mezza nuda e semisvenuta, ripercorsi il sentiero con infinita cautela, sapendo cosa mi aspettava, sicuro che avrei riconosciuto il punto esatto in cui ero caduto la prima volta.
Evitai accuratamente di ricascarci e quando tornai sulla strada maestra tirai un sospiro di sollievo. Ce l’avevo fatta! Il destino non si sarebbe burlato di me una seconda volta, almeno questo fu ciò che pensai, sollevato, mentre mi incamminavo verso la mia auto.
Povero, stupido idiota! Ancora non sapevo che la vita mi aveva preso di mira e stava per giocarmi un altro gran brutto tiro...
Il secondo pozzo apparve dal nulla, ad oggi ne sono certo, come son certo di chiamarmi Cristian. Caddi per la seconda volta, precipitando per parecchi metri, ferendomi come la prima volta e, non appena atterrai rovinosamente sul fondo, ecco che fui di nuovo trasportato nel passato.
E’ impossibile descrivere l’angoscia, la disperazione, la rabbia cieca che mi colsero. Beffato da un sadico destino, per ben due volte! Ed eccomi di nuovo lì, nella mia stanza, con il pigiamino stretto, l’orsetto tra le braccia, i piedini penzoloni dal letto e grosse lacrime sui bordi delle ciglia che non mi curai di trattenere.
Com’era possibile? Perchè la vita mi stava facendo questo? Piansi a lungo, in silenzio, il visino affondato nel cuscino e non pensai a tapparmi le orecchie. Sapevo quello che mio padre stava facendo a mia madre e sapevo quello che stava per fare a me.
Se avessi avuto un’infanzia felice, sarebbe stato come rivivere un sogno, ma le cose non stavano così, purtroppo. Ero stato scaraventato all’inferno per la seconda volta e fui costretto a bruciare ancora una volta tra quelle fiamme.
Lo feci, con perfetto stoicismo ma, forse, con una maggior consapevolezza. Cristian bambino non esisteva più. Esisteva l’adulto, schiacciato in un corpo troppo piccolo, in abiti troppo stretti, in un ambiente soffocante, in un mondo quasi del tutto privo di amore, eccetto il cuore di mia madre. Lei era la mia unica luce, la sola presenza per la quale mi sentivo grato. Ma lui… oh, quante volte avevo desiderato essere grande per poterlo affrontare da uomo a uomo! Ma non potevo. E anche quando compii 16 anni, non lo toccai nemmeno con un dito. Forse ero solo un codardo, proprio come lui. Forse avevo paura di colui che mi aveva dato la vita.
Anche quella volta scelsi la fuga. Nel frattempo, mi ponevo domande. Perchè stava accadendo proprio a me? Che cosa dovevo cambiare? Perchè era fin troppo chiaro che la vita mi stava mandando un messaggio.
Cambiare me stesso? Era impossibile. Non potevo, e nemmeno lo volevo. Io ero quel che ero, vittima delle circostanze. Ero nato così, molto semplicemente. Non era mia la colpa se ero un violento.
Abbandonai mia madre, picchiai, rubai, stuprai, fino a conoscere Leila, e poi l’adolescente.
Era la terza volta che la vedevo, e tremai. Sì, lo confesso, ebbi un fremito.
Vattene. Lasciala perdere. Non ti sei già fottuto abbastanza?
Accadrà ancora. Non è ancora finita.
Sapevo che la voce dentro la mia testa diceva la verità. Il suo monito era concreto, reale.
Allora perché scelsi di non ascoltarla? Ora lo so. Semplicemente perché non avevo ancora imparato la lezione.
Mi cospargo il capo di cenere mentre confesso, al colmo della vergogna, di esserci ricascato per la terza volta. Un nuovo pozzo, spuntato dal nulla. Un nuovo viaggio all’indietro, in un’eterna spirale.
E allora capii che spettava a me scrivere la parola fine. E c’era un solo modo per farlo: cambiare. Esattamente ciò che mi ero rifiutato di fare fino ad allora, ma non potevo continuare così, o avrei finito per impazzire.
Qualcosa scattò dentro di me, e tutto accadde in modo naturale, senza sforzo. Mi lasciai trascinare nel vortice del cambiamento con profonda inconsapevolezza, semplicemente vivendo tutto in un modo nuovo.
Subii le botte di papà senza più nemmeno provare a difendermi, ma ogni volta che alzava un braccio per colpire mamma mi mettevo in mezzo, spesso prendendole di santa ragione al posto suo. E ne ero felice, purché non la toccasse. Lei notò il cambiamento, vedevo il modo in cui mi scrutava di sottecchi, quando ero assorto nei miei pensieri o concentrato sui compiti. Mi stringeva più spesso del solito, con gli occhi luccicanti, e mi sussurrava quanto mi amasse.
Io, commosso, non parlavo. Non potevo dirle che ero tornato per la terza volta e che, per la terza volta, l’avrei abbandonata. Spesso, sotto le misere coltri del mio lettino, piangevo in silenzio, senza riuscire a prendere sonno.
Crebbi, e me ne andai, anche se quella partenza fu, in assoluto, la più difficile. Avrei voluto portarla via con me, ma non ne ebbi il coraggio. Forse, in me, prevaleva ancora l’egoismo, lo spirito di sopravvivenza, l’intraprendenza. Forse pensavo che la sua presenza sarebbe stata d’intralcio per i piani che avevo in mente. Non sarei stato libero di divertirmi come desideravo, con lei al mio fianco.
Non so se la vita volesse che cambiassi anche questo. Probabilmente sì, ma non lo feci, ostinato nelle mie peregrinazioni, nei miei deliri, nel mio rifiuto di conformarmi ad una società che, in fondo, detestavo con tutto me stesso.
Tuttavia, il cambiamento ci fu e mi destabilizzò. Usai violenza, ma con minor audacia di un tempo.
Quando vidi la ragazza al bar in abito rosso, colei che era stata la mia prima vittima, indugiai a lungo nell’osservarla. Era bella, e i lineamenti, lo notai solo ora per la prima volta, esprimevano una dolcezza che in passato mi era sfuggita. Meritava ciò che avevo in mente di farle?
Immediatamente, mi riscossi. Che mai erano quei pensieri da femminuccia? Ero o non ero un uomo? Che importanza aveva che lo meritasse o meno? Andava fatto, perdio!
Eppure, quando l’aggredii, fuori dal locale, un attimo di esitazione di troppo fece in modo che la preda mi sfuggisse tra le mani. Fuggì, ed io imprecai, maledicendomi per la mia stupidità. Per fortuna, avevo avuto l’accortezza di indossare un passamontagna, che aveva celato ai suoi occhi la mia identità.
Scappai, prima che qualcuno mi vedesse, e mi nascosi. Solo più tardi riflettei su quel tentennamento che avrebbe potuto costarmi molto caro. Si, ero decisamente cambiato, e in peggio, per quanto mi riguardava. Io, da sempre convinto di essere uguale a mio padre, per la prima volta cominciavo a sentirmi diverso da lui. Non ero più io, non ero più Cristian, e questo mi spaventava.
Che fosse questa la lezione da imparare? Questo ciò che la vita si aspettava da me? La presunta somiglianza con mio padre, di fatto, non era altro che una falsa convinzione della mia mente? Non ero, come sempre avevo creduto, nato per essere violento?
Quell’apparente cambiamento lo dimostrava. Non ero riuscito a colpire la mia prima vittima e fallii anche con quelle successive. Ogni volta che ero in procinto di colpire, qualcosa mi bloccava, senza sapere cosa. Iniziai a sentirmi un fallito, un mezz’uomo, uno senza spina dorsale.
La mia vita non aveva più uno scopo, perché priva di quella scintilla che mi aveva fatto vibrare in passato. Non c’erano più scariche di adrenalina a farmi eccitare, a farmi vivere il brivido. Ero come un morto che cammina. Lavoravo, tornavo nella mia stanza e dormivo. Spesso, nemmeno mangiavo. Ero diventato niente meno che un vegetale, uno che non riusciva più nemmeno a scopare una donna.
Poi, conobbi Leila e fu con lei che persi la verginità. Mi lasciai andare, coinvolto dal suo desiderio, dalla sua gioia di vivere, dal suo entusiasmo per la vita. Non aveva occhi che per me e mi fece sentire unico, speciale, come se valessi davvero qualcosa. Io ero ancora confuso e stordito dal mio recente, repentino cambiamento, che non riuscivo ancora ad accettare e mi lasciai trasportare attraverso una vita e una relazione che non sentivo mie.
Leila insisteva perché andassi a vivere con lei, perché conoscessi suo padre. Era questo ciò che volevo? Lei era innamorata, ma io cosa provavo per lei? Se, in passato, ero stato piuttosto risoluto sulle mie decisioni che la riguardavano, ora ero molto confuso. Tuttavia, non ritenni giusto approfittare di lei, del suo buon cuore. Acconsentii a trasferirmi da lei, ma continuai a lavorare. Ormai non ero più un violento, ma un mediocre qualunque. La mia vita, come la mia persona, non valevano granchè. Forse, avrei dovuto darle retta, accettare un posto nell’azienda di suo padre, sposarla, avere dei figli…
Ma io amavo Leila? Il cuore mi diceva di no.
Capii di essere veramente cambiato quando decisi di lasciarla. Mi cercai un appartamento e me ne andai, spezzandole il cuore.
Non fu facile. Leila mi amava davvero, ma io non ricambiavo il suo sentimento e se, nelle mie vite precedenti, avevo approfittato di lei, ora non volevo più farlo.
Stentavo a riconoscermi e io stesso mi sentivo a disagio nel dover convivere con il nuovo Cristian. La scia di violenza che aveva sempre permeato i miei anni si stava dissolvendo nella nebbia e, per la prima volta nella mia vita, intravedevo un barlume di luce in fondo al tunnel nero e profondo nel quale sempre avevo vissuto.
Feci l’unica cosa che potevo fare: tornai nei miei luoghi d’infanzia, a cercarla. Sapevo che era quella la chiave per chiudere il cerchio.
Entrai e la vidi china sulla sedia a dondolo, davanti alla finestra. La luce del tramonto si stagliava come una lama sui capelli ingrigiti dal tempo, avvolti in una crocchia sopra la nuca. Si voltò e vidi la sorpresa sul suo volto ancora bello ma solcato dalle rughe.
“Cristian! Sei proprio tu!”
Si alzò, barcollando verso di me, le braccia tese. L’abbracciai stretta, sentii il suo corpo fragile e ossuto contro il mio petto. Si sciolse in lacrime e lo stesso feci io.
Solo molto più tardi, davanti ad una tazza di caffè, scoprii che mio padre era morto pochi anni prima di cirrosi. Aveva smesso di picchiarla solo perché stava troppo male per farlo e lei gli era rimasta accanto fino alla fine.
Mettemmo in vendita la casa e la portai con me, nel mio nuovo appartamento in affitto. Era lei la donna della mia vita e sempre lo sarebbe stata.
La violenza apparteneva al passato, un capitolo chiuso a chiave in un angolo del mio cuore per sempre.
Ero rinato e, se non potevo dirmi felice, ero, perlomeno, sereno.
Seppellii mia madre pochi anni dopo. Se ne andò nel sonno, serena, felice per quegli ultimi anni vissuti accanto al suo unico figlio.
Avevo fatto la scelta giusta. Anzi, non avrei mai dovuto abbandonarla ma, in fondo, il viaggio a ritroso nel tempo è servito proprio a questo: a farmi risorgere dalle mie stesse ceneri.
Il pozzo maledetto, alla fine della storia, si è rivelato la più grande benedizione della mia vita.
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